Campagna stampa ‘Valnerina, pillole di tradizione’

L’allevamento tradizionale del maiale, specie nelle zone collinari e montane, avveniva in stazzi aperti e recintati, ubicati in preferenza nei boschi di querce e roverelle dove gli animali potevano nutrirsi di ghiande. L’uso del porcile, in dialetto ‘stallittu’ o ‘sturiju’, iniziò a diffondersi dagli inizi del Novecento quando era stato già introdotto il maiale rosato. Fino alla metà dell’Ottocento infatti, i maiali allevati allo stato brado avevano un aspetto molto simile al cinghiale, a pelame ispido e scuro; accanto a questi non mancava il cintato senese. Questa razza, nell’arte sacra medievale della Valnerina è spesso rappresentata dal maiale che accompagna S. Antonio abate.

Quando dall’allevamento in stazzo boschivo si passò all’allevamento in stalla, fin quando non entrarono in uso i mangimi industriali, anziani e bambini erano addetti alla raccolta delle ghiande, quelle cadute e quelle ancora attaccate alle querce per le quali ci si arrampicava e si batteva sui rami per far cadere quelle mature: l’operazione era detta ‘ngioccà’. La facilità di reperimento delle ghiande faceva sì che anche le famiglie più povere potessero permettersi di allevare almeno un maiale.

L’abilità nella lavorazione della carne di maiale, acquisita dai contadini nel corso dei secoli, come noto, venne messa a frutto da una categoria di artigiani specializzati, i quali in omaggio a Norcia, uno dei centri più celebri in cui veniva praticata quest’arte, vennero detti ‘Norcini’. Il termine ancora oggi designa i tecnici della lavorazione della carne suina indipendentemente dalla provenienza. I norcini della Valnerina, durante l’inverno, esportavano i città la loro professione sicché, col tempo, la pratica della Norcineria divenne un redditizio lavoro stagionale. Alcuni norcini aprivano poi una bottega propria per fare fortuna, le cosiddette ‘Norcinerie’.

 

(Fabiola Chàvez Hualpa, Le donne nel mondo rurale della Valnerina, Terni, tipolitografia Federici, 2012)

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